Reportages 2005 - Buona lettura

ELISABETTA SIRANI, PITTRICE EROINA

di FILIPPO PANZA

Pittrice di successo nella Bologna e nell’Europa del Seicento, organizzò una scuola femminile di pittura. Morì a soli 27 anni

   Essere donne nel Seicento non era certo semplice. Mancava ancora molto al femminismo e alle rivendicazioni di parità tra i due sessi. La pittrice bolognese Elisabetta Sirani fu una delle poche donne che riuscì a farsi stimare per le sue qualità. Ma si rivolterebbe nella tomba sapendo che il più comune apprezzamento a lei indirizzato è ancora oggi “dipinge da homo”, utilizzato per primo dal canonico Carlo Cesare Malvasia, autore della più importante biografia dei pittori bolognesi. Il fatto è che al tempo veniva considerata squisitamente maschile non solo la professione di pittore, ma anche lo stesso concetto di successo. Le donne potevano raggiungere la celebrità e l’agiatezza solo di riflesso da un uomo, per matrimonio o per eredità paterna. Ecco spiegata allora l’insistenza a “mascolinizzare” il talento artistico della pittrice. Dunque una sorta di essere ambiguo di comodo, Elisabetta: uomo quando ci fosse da decantare le sue qualità, donna per sottolinearne i difetti. Elisabetta costituiva un’eccezione a un modello maschile consolidato, che proprio dalla straordinarietà del fenomeno risultava rafforzato. Ma la ricompensa per la Sirani, comprensiva degli interessi, è arrivata con il passare dei secoli. Come dice, infatti, Antonio Pinelli nel suo articolo ne “La Repubblica” del 31 gennaio: “alle rare pittrici che sono state in grado di emergere grazie alla loro tenacia e al loro talento è toccata la doppia ricompensa morale di un consenso di gran lunga superiore a quello di tanti pittori maschi di pari levatura: in vita per un’ammirazione quasi morbosa, oggi per il contrappasso dei gender studies”. Come la maggior parte delle pittrici antiche Elisabetta era figlia d’arte: suo padre, Giovanni Andrea Sirani, era stato allievo del grande Guido Reni, il capofila del neoraffaellismo emiliano. Elisabetta (1638-1665), dopo aver realizzato la sua prima impresa pubblica a diciassette anni (un Battesimo di Cristo per la chiesa bolognese di San Girolamo) col tempo diventò l’asse portante della bottega del padre. Organizzò una scuola femminile di pittura e riscosse successo e commissioni, prima da diverse famiglie aristocratiche bolognesi, poi dalle regnanti di mezza Europa. Realizzò circa duecento opere (La metà delle quali sono perdute), annotandole minuziosamente in un libretto. Il percorso della mostra parte con l’immagine della pittrice: ci sono due autoritratti superstiti e alcune stampe e disegni. Per quanto riguarda la produzione di Elisabetta Sirani la scelta è molto ampia e comprende un numero consistente di opere rintracciate solo negli ultimissimi anni e mai esposte prima. Tra i quadri di devozione privata spiccano la Madonna della Cassa di Risparmio di Cesena e il San Giovannino nel deserto che contempla un agnello, incarnazione di Gesù. I pochi ritratti superstiti della pittrice sono tutti esposti: quello di Ortensia Leoni Cordini nelle vesti di Santa Dorotea, quello di un bambino della famiglia Ranuzzi, casato a cui la pittrice fu molto legata, nei panni di un Amore sontuosamente secentesco e quello di Anna Ranuzzi Marsigli come Carità. I dipinti mitologici, soprattutto quelli raffiguranti coraggiose eroine, sembrerebbero essere uno dei temi preferiti e più riusciti della Sirani. Dalla Timoclea che getta in un pozzo il soldato di Alessandro Magno che l’aveva violentata, alla Porzia che si ferisce la coscia per dimostrare il proprio coraggio al marito Bruto, che non le voleva rivelare la congiura contro Cesare. I quadri mitologici non si limitano però alle eroine: ci sono anche la Galatea riemersa alla fine degli anni Novanta dipinta per il marchese Cospi nel 1664, l’inedito Ercole in collezione privata, datato 1662 e l’Amorino Trionfante anch’esso in collezione privata. La fine precoce di Elisabetta, morta a 27 anni, fu avvolta nel mistero: si accusò una sua cameriera di averla avvelenata per invidia e venne istruito anche un processo. La verità, pare dagli studi recenti, fu che Elisabetta morì per un’ulcera perforata, forse per il troppo lavoro che le fece respirare a lungo le sostanze tossiche utilizzate per dipingere.

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